Nella prestigiosa Enciclopedia della Musica Einaudi curata da Jean Jacques Nattiez, nel secondo volume dedicato al “Sapere Musicale”, pubblicato nel 2002, troviamo un bellissimo contributo di Johannella Tafuri: “Doti musicali e problemi educativi”. L’autrice, illustre pedagogista italiana attiva da tempo nella Società Italiana di Educazione Musicale, approfondisce i termini di un dibattito mai concluso fra talento ed educazione, un dibattito ora infiammato dalla questione del “merito” scolastico in ambito infantile e adolescenziale e della vistosa nuova denominazione del ministero che si occupa della scuola: il Ministro dell'Istruzione e del Merito.
Ripercorrendo il saggio di Johannella Tafuri, ripercorriamo i termini del problema in ambito musicale: il talento è una qualità innata?
L’ansiosa domanda che molti genitori rivolgono agli insegnanti “mio figlio è portato per la musica? Ha talento? Ha predisposizione? È dotato? Ha musicalità?” lascia trasparire la convinzione che si tratti di una qualità innata, che può esserci o non esserci, senza la quale potrebbe essere inutile intraprendere gli studi musicali. Per di più le espressioni usate hanno un significato che, apparentemente chiaro per tutti, si rivela in realtà quanto mai ambiguo e confuso se si cerca di precisare a che cosa ci si riferisca esattamente: a una capacità musicale globale? A capacità specifiche come saper cantare/suonare bene? E quale livello indica questo “bene”? Qual è il modello di riferimento tecnico e interpretativo che ha in mente sia chi interroga sia chi risponde? Si sta parlando di capacità riservate a pochi eletti? In che rapporto sono queste capacità con l’età e con lo studio?
Le domande non trovano facile risposta neanche nel tessuto scolastico e, in specifico, nel mondo dell’Alta Formazione Musicale, il mondo dei conservatori. Non trovano risposte facili nemmeno tra chi, da anni, opera come docente di musica e pratica quotidianamente una didattica musicale. Concorsi musicali, premi, talent show, sensazionalismi di cronaca, enfatica critica giornalistica, lasciano dedurre che quello della musica sia un dono riservato a pochi, forse pochissimi, in una parola: solo a dei “genii”. Ma una concezione di questo tipo produce diversi scivolosi fraintendimenti. Cominciamo dalla parola “talento”:
L’uso del termine “talento” per indicare capacità non comuni proviene, per estensione semantica, dalla parabola evangelica nella quale Gesù, usando il nome di una moneta allora in circolazione in Grecia e in Palestina, racconta di un padrone che distribuisce dei talenti ai servitori (per raffigurare i doni che Dio dà agli uomini) affinché vengano impiegati bene: il servitore che nasconde il talento invece di farlo fruttare viene punito. Il richiamo a questa origine del termine ci permette di collocare fin dall’inizio il problema del talento nella prospettiva sia di qualcosa che si riceve fin dalla nascita, anzi fin dal concepimento, ma che bisogna far “fruttare”, sia dell’ipotesi che nessuno sia sprovvisto di talenti e che siano pochissimi coloro con i quali la natura è particolarmente generosa o particolarmente avara. Al talento possiamo quindi attribuire il senso di “dotazione potenziale” che deve poi “fruttare” producendo capacità concrete.
Insomma il talento può essere inteso come dotazione genetica di partenza ma anche essere inteso – nella accezione evangelica - come il “frutto”, il risultato concreto che si raggiunge quando una dotazione potenziale cresce purché si determinino una serie di condizioni favorevoli.
Il frutto che produce la dotazione genetica relativa all’ambito musicale può essere considerato come un insieme di capacità le quali raggiungeranno un livello maggiore o minore secondo l’interazione più o meno positiva con una serie di fattori ambientali, affettivi e culturali. E’ l’analisi di questi fattori che permetterà di capire il senso di una dotazione che può essere considerata “normale” e dell’eventuale esistenza di dotazioni superiori o inferiori alla norma.
L’”Innatismo” e l’”Ambiente”, sono dunque i due poli del problema:
Quando nel 1981 uscì il libro Intelligenti si nasce o si diventa? Di Eysenck e Kamin il dibattito sul rapporto tra eredità e ambiente, tra natura e cultura era accesissimo, ed era forte la polemica tra i fautori dell’innatismo secondo i quali si nasce con una certa “quantità” di intelligenza e i fautori del ruolo determinante dell’ambiente e dell’apprendimento.
L’entusiasmo che si era acceso intorno ai test di misurazione del Quoziente Intellettuale (QI) oggi si è molto ridimensionato e si è più convinti che l’”ambiente” sia in realtà qualcosa di molto più ricco e composito di quanto la parola indichi, con conseguenze sempre più evidenti sull’apprendimento.
Il dibattito sul tema è dunque acceso dagli anni Ottanta e trova nella figura di Howard Gardner, illustre psicologo statunitense, un punto di riferimento fondamentale. Sottolineando l’inevitabile interazione con l’ambiente, Gardner postula una posizione:
che consideri seriamente la natura delle propensioni intellettuali innate, i processi eterogenei di sviluppo del bambino e i modi in cui questi processi sono plasmati e trasformati dalle particolari pratiche e dai particolari valori della cultura
Quel che sostiene Gardner è che le competenze intellettuali non si sviluppano mai nel vuoto ma in precisi contesti culturali e in funzione di certi ruoli sociali.
La teoria delle intelligenze multiple di Gardner costituisce dunque un fondamentale passo avanti nel dibattito. Per Gardner l’intelligenza è “la capacità di risolvere problemi, o di creare prodotti, che siano apprezzati all’interno di uno o più contesti culturali”. Avere la capacità di risolvere problemi significa saper cogliere fra diverse competenze, fra diverse forme di intelligenza. E tra le forme di intelligenza contemplate, vi è l’intelligenza musicale.
Le formae mentis (come dice il titolo del libro di Gardner del 1983), ovvero le diverse forme di intelligenza, sono fra loro indipendenti e l’essere adulto è caratterizzato da una combinazione di intelligenze diverse.
Gli studi genetici più recenti ci dicono che nessuna dotazione genetica ha uno stretto controllo sul risultato. La dotazione avrà una notevole interferenza dell’ambiente.
Nel campo dell’intelligenza in genere e dell’intelligenza musicale in particolare non ci sono comunque ragioni scientifiche che autorizzino a credere che la natura sia particolarmente avara con la maggior parte degli individui ma semmai ci sono buone ragioni per pensare che tutti ricevano una dotazione genetica sufficiente per uno sviluppo musicale “normale” e che le differenze effettivamente riscontrabili siano dovute all’azione di altri fattori.
Dunque il modo in cui una persona affronta una certa specifica situazione dipenderà dal complesso delle sue conoscenze, dai suoi interessi, atteggiamenti, pregiudizi, stati d’animo, aspettative, temperamento ecc. E saranno questi fattori che determineranno il modo in cui le situazioni vengono percepite ed elaborate dal cervello.
In conclusione, l’ipotesi che in molti è ormai convinzione è che tutte le persone (o almeno la maggioranza) siano in partenza musicalmente “dotate”, cioè possiedano una dotazione genetica “normale”, ma che solo le persone per le quali si determini un’interazione molto positiva e stimolante con l’ambiente, con l’educazione, con tutti gli altri fattori appena citati sviluppino eccellenti qualità.
Su questa convinzione si fonda il sistema scolastico, su questa convinzione si sviluppa una moderna pedagogia musicale e una convinta azione didattica.
Questa ipotesi è ampiamente confermata dai risultati raggiunti per esempio dai bambini giapponesi nell’apprendimento del violino con il metodo Suzuki, dai bambini ungheresi nell’apprendimento della capacità di cantare con il metodo Kodàly e dai bambini anang nigeriani nell’apprendimento delle capacità di cantare e suonare, altrimenti dovremmo ammettere una generosità della natura con queste popolazioni decisamente inspiegabile. Ciò non esclude tuttavia che possano esservi dei “superdotati” o dei “subdotati”.
E da questi assunti che, Johannella Tafuri sintetizza:
Sulla base di quanto detto, proponiamo di sostituire le espressioni dote, talento, musicalità, attitudine, ecc. vaghe e generica (nonché usurate dalla prospettiva romantica del genio), con intelligenza musicale intesa non come dotazione genetica ma come capacità concreta di eseguire determinati compiti, e più precisamente come la capacità concreta di eseguire problemi esecutivi, compositivi e analitico-interpretativi o di creare esecuzioni, composizioni e interpretazioni. Sintetizzando, si può dire che l’intelligenza musicale è la capacità di capire o produrre una musica, includendo nel produrre sia la capacità esecutiva che quella compositiva; tale capacità passa attraverso diversi livelli di maturità prima di raggiungere lo stato finale adulto per il quale occorre comunque la combinazione di intelligenze diverse.
E dunque la domanda iniziale si scioglie, si trasforma e diventa: come sviluppare l’intelligenza musicale?
Gardner afferma che occorrono “una motivazione appropriata, uno stato emotivo favorevole all'apprendimento, un insieme di valori che favoriscano un tipo particolare di apprendimento e un contesto culturale di sostegno”. Occorre inoltre esercizio.
un esercizio che può essere inconsapevole o consapevole, più spontaneo o più organizzato, più facile o più difficile, più o meno piacevole ma del quale lo sviluppo dell'intelligenza non può certamente fare a meno. Le potenzialità, le virtualità, le propensioni non diventano capacità reali senza esercizio e questo diventa determinante ai fini di una scelta professionalizzante.
Johannella Tafuri, elenca così le componenti fondamentali del processo di insegnamento/apprendimento che entrano in gioco come variabili di un complesso sistema:
1) l'interazione insegnamento/apprendimento e la situazione affettivo-emotiva attivata;
2 i protagonisti della situazione educativa, allievi e insegnanti, con i loro bisogni, interessi, motivazioni;
3) il contesto o situazione generale in cui avviene l'apprendimento e quindi l'ambiente e il campo culturale disciplinare;
4) la modalità di progettazione, organizzazione e gestione della situazione educativa (scelta di obiettivi, ambienti, metodi, attività, tempi, contenuti, ecc.);
Questi quattro fondamentali fattori si declinano in tre grandi direttrici: l’autoapprendimento, l’educazione informale e l’educazione formalizzata. La prima direttrice è spontanea e naturale e per lo più inconsapevole. L’assimilazione del sistema tonale, in ambito musicale, avviene per esempio attraverso la mera abitudine di ascolto. Talvolta tale forma di autoapprendimento è stimolata da interventi esterni discontinui e casuali che provengono dall’ambiente, dalla famiglia, dai parenti o dai coetanei. Si insegna al bambino una filastrocca o una canzone senza che vi sia alcuna programmazione didattica. Ebbene questo scambio dà origine alla educazione informale che può costituire un bombardamento di stimoli attorno al bambino.
In Italia a sei-sette anni sono ancora molti i bambini che non sanno intonare quando cantano e che vengono considerati “stonati” come se si trattasse di una condizione innata: in realtà non si tratta di bambini subnormali, non c’è alcuna carenza funzionale, si tratta semplicemente di bambini che non hanno ancora acquisito il coordinamento audio-vocale o per mancanza di stimoli adeguati nel periodo idoneo o per condizionamenti psicologici e culturali dovuti all’ambiente familiare e sociale, quindi dovuti anche all’importanza attribuita alla capacità di cantare, ritenuta essenziale, rispettata e valorizzata in alcuni ambienti e culture ma non in altri.
L’educazione formalizzata è invece strutturata in relazione ai sistemi simbolico-culturali propri di ogni periodo storico e di ogni area geografica ma è strutturata anche da ciò che il gruppo sociale dominante ritiene importante. Se un Paese ritiene che la musica sia un mero passatempo, la escluderà dai programmai scolastici. Questo è quello che, in larga parte, avviene ancora in Italia: certamente nella Scuola media superiore e, solo in minima parte, nella primaria e nella scuola di infanzia.
Chi sono i “grandi talenti”? Di fronte a casi di sorprendente abilità, di straordinaria precocità, di soggetti le cui capacità sono fuori dalla norma, occorre riflettere:
Di fronte a capacità che si manifestano come eccezionali o in rapporto all’età, e quindi per la precocità con cui sono state raggiunte, o in rapporto al tempo impiegato, e quindi per la velocità dimostrata nell’esecuzione del compito, non siamo ancora di fronte allo sviluppo maturo dell’intelligenza musicale, anzi a volte si raggiungono capacità eccezionali per cause patologiche come quelle dei cosiddetti idiots savants o come la straordinaria flessibilità della mano di Paganini che gli permetteva di comporre ed eseguire brani di estrema difficoltà tecnica a causa del morbo di Marfan da cui era affetto e dai cui dipendevano la sua estrema lunghezza degli arti, il notevole rilassamento dei legamenti e la particolare struttura delle ossa che le rendeva molto leggere.
Nell’analisi delle carriere di eccellenti musicisti adulti si mette in luce la complessa quantità e interazione di fattori che hanno determinato risultati straordinari: famiglia, ambiente, esperienze musicali precoci, educazione, insegnanti, carriera professionale, stato socioeconomico, interesse, motivazioni, valutazioni di sé, soddisfazioni professionali, ostacoli incontrati.
Pur ammettendo in linea di principio che alcune persone possano riceve una dotazione genetica straordinaria, di fatto è difficile, se non impossibile, dimostrare la presenza di tale dotazione che comunque non produrrebbe capacità eccellenti senza l’azione positiva di detti fattori.
In tale percorso a ostacoli, l’aspetto determinante risulta essere lo studio. Non è detto che bambini con talento precoce reggano il peso di uno studio progressivamente più impegnativo e duro. Il caso di Mozart, bambino prodigio per eccellenza, è il caso di un bambino sottoposto dal padre a un durissimo regime di studio.
La responsabilità dell’organizzazione formalizzata è dunque primariamente la responsabilità di costruire un ambiente fertile e proficuo affinché le tante condizioni di un successo formativo trovino integrazione responsabile. Il dibattito sul merito rischia di spostare i termini del problema. Dal nobile assunto di marcare e premiare il virtuoso impegno dello studente, si passa al meno nobile assunto di deresponsabilizzare un sistema scolastico che, dal primissimo livello sino agli studi universitari, deve occuparsi di come garantire a tutti – ma proprio tutti nessuno escluso - il diritto di abitare un ambiente formativo nel quale si realizzino, se non tutte, le principali condizioni che consentono lo sviluppo dell’intelligenza. Emergenze inclusive, abbandono scolastico, edilizia scolastica, aggiornamento delle professionalità, percorsi e piani di studio da implementare, interazioni con il mondo sociale, con il mondo del lavoro, bullismo e tanto altro costituiscono un tale bagaglio di problemi da rendere – al momento – puramente ideologico e pertanto staccato da un esame di realtà, un dibattito sulla questione del merito.